La Festa di San Michele, ed altri ricordi

Mi diede la mano.
“Andiamo, fra poco inizia a suonare l’orchestra” – disse.
Pochi passi, da casa al centro della festa… Allora abitavamo in Via Elifani, vicinissimo alla Piazza principale del Paese.

Mio padre amava la musica.
Da adolescente, a soli tredici anni, suonava nella banda del Paese.
Era molto orgoglioso del suo strumento: il corno francese.
In realtà, mi affascinava molto quando in casa si divertiva con il mandolino.
E raccontava sempre che, quando era militare, alpino, intonava “il silenzio” con la tromba durante l’Elevazione, in Chiesa.
Lo aveva fatto anche a Rodi Egeo, dove – dopo l’armistizio dell’otto settembre – fu fatto prigioniero dai tedeschi e fu spedito in un campo di lavoro in Germania.
Non era un uomo di chiesa, mio padre.
Anzi, lui, socialista, ce l’aveva con i preti: a quei tempi, nel secondo dopoguerra, la moda era che quelli di sinistra ce l’avessero con i preti.

Mia madre no: lei ci teneva che io frequentassi la Parrocchia della Concezione.
Ricordo che in quinta elementare, di domenica, servivo a messa: e pretendevo che mia madre avesse cura di mettermi sempre dei tacchi nuovi alle scarpe.
Allora i chierichetti si inginocchiavano di spalle ai fedeli seduti tra i banchi: ed io desideravo che le bimbe potessero osservare come la suola e i tacchi delle mie scarpe fossero ‘spick and span’, come diceva una pubblicità in televisione.

In Chiesa ero padrone di tutto.
Don Peppino usava dire al Sagrestano: “Quando c’è Tonino, puoi anche andare a casa. Se la vede lui.”
Avevo imparato anche a spegnere le candele – e niente battute, per piacere: non fate troppi pettegolezzi, come direbbe lo Scrittore – che erano sull’altare utilizzando l’apposito strumento.

Ricordo che, quando servivo, il momento in cui mi sentivo importante era quello del suono della campanella:
“Sursum corda!” – ed io lì pronto a scampanellare con tutto l’impegno, analogo a quello che impiegavo a scuola quando il maestro ci assegnava i problemi con dieci operazioni.

In pochissimi minuti avevamo raggiunto la Piazza.

Sotto la statua di San Michele, davanti alla lapide dedicata a Gramsci, era stata preparata la cassa armonica, come ogni anno in occasione della Festa patronale – da qualche anno non succede più… E figuriamoci quest’anno, con la pandemia provocata dal ‘coronavirus’.

L’orchestra stava già suonando, non ricordo cosa.
Poi ci fu una pausa.
Ed ecco la musica dell’Aida…
C’era tantissima gente davanti a me.
Io non riuscivo a vedere gran che.
Lui non esitò un istante: mi sollevò e mi mise a cavalcioni sulle sue spalle.
In quella circostanza fui davvero molto fiero di mio padre – come sempre, d’altronde – e di quella posizione privilegiata: soltanto così potetti guardare le trombe egizie che sporgevano vistosamente dalla cassa armonica al suono della marcia trionfale.

Da allora, quando ascolto il motivo dell’Aida, mi vengono le lacrime agli occhi ed un nodo in gola.

Dopo mezzogiorno, l’orchestra smise di suonare.
La passeggiata sino alla Chiesa di San Michele era d’obbligo.
Così come rituale era mangiare lo zucchero filato.

Sapevo che presto sarebbe arrivato il momento del regalo.
E così fu: davanti alla bancarella più fornita mio padre mi invitò ad esprimere il desiderio.
Era da tanto che desideravo il trenino a pile: il desiderio fu prontamente esaudito.

Che emozione!
Non vedevo l’ora di ritornare a casa per montare i binari: l’ho considerata da sempre una esperienza creativa. Anche adesso che ho sulle spalle parecchi lustri, ogni volta che mi capita l’occasione mi appassiona creare i vari percorsi su cui far correre i trenini.

Mio padre aveva partecipato alla seconda guerra mondiale.
Riuscì a scappare dal campo di lavoro tedesco e a raggiungere avventurosamente l’Italia: le sue peripezie sulla strada del ritorno farebbero impallidire, al confronto, il racconto di Primo Levi.

Operaio, ci teneva ai miei studi.

Anni più tardi, in occasione di un’altra Festa patronale, andarono a rubare a casa.
Mio padre era stato pagato dai proprietari della abitazione presso cui aveva eseguito dei lavori.
Fu certamente un furto su commissione.
Era il 30 settembre: la mattina del giorno successivo io dovevo partire per Bari.
Lì ero ospite della carissima zia Giuseppina.
La mattina mio padre aprì il portafogli e mi diede dei soldi:
“Questo mi è rimasto” – disse. “Prendili, e tu vattene a Bari e pensa a studiare.”

E dovette anche risarcire parte della somma rubata che spettava al suo amico Togo.

Io devo a mio padre se mi sono laureato, e tutto il resto.

Superai il concorso magistrale, e senza raccomandazioni, a venti anni: allora c’era la graduatoria riservata agli ‘otto decimisti’ – mi pare così si chiamasse – negli scritti e negli orali.
Ero felicissimo perché potetti comprarmi l’automobile dei miei sogni, la mini minor color amaranto.

Mio padre, invece, era fortemente contrariato: “Adesso non ti prenderai più la laurea!” – mi disse, molto preoccupato.

Ma io gli promisi che mi sarei laureato.
E, da studente lavoratore, mantenni la promessa con il massimo dei voti e la lode…
…Pur non avendo merito alcuno, come ho sempre ritenuto.
I genitori, infatti, possono avere tantissimi figli uno diverso dall’altro, in maniera meramente casuale: in virtù degli incroci tra i cromosomi può capitare di tutto (!!!), come sappiamo (*).

Così come ritenni di non avere particolare merito quando, a ventotto anni, superai la prova scritta del concorso direttivo, senza copiare, con voto alto: meglio di affermati scrittori.
Ma “anche” in tal caso fui davvero molto fortunato perché il tema dello scritto fu quanto di più consono alle mie letture potesse capitarmi.
Poi superai il concorso, piazzandomi in ottimo ‘centile’, per così dire, nei primi posti della graduatoria nazionale: ancora una volta, come sempre, senza raccomandazioni!
E mio padre – che morì pochissimo tempo dopo essere andato in pensione – fu davvero molto fiero di me!

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(*) P.S.
Avendo lavorato per circa quarant’anni nella scuola primaria, a contatto stretto con la scuola dell’infanzia e la scuola media dell’obbligo, mi sono sempre interrogato circa il valore da attribuire al merito.
Il merito premia le capacità soggettive, la buona ventura cromosomica, l’appartenenza ad una classe sociale, la situazione reddituale della famiglia dei singoli.
Quando avevo sedici anni, il mio carissimo Professore di Filosofia e di Pedagogia, Giuseppe Caggiano – il quale, sapendo quanto mi piaceva la matematica e regalandomi dei libri che ancora conservo gelosamente, mi avviò allo studio della logica e di Piaget – ci fece conoscere Don Milani…
Da allora non ho avuto mai il minimo dubbio: ho sempre considerato prioritario, per educazione familiare e formazione politica, innanzitutto, la tutela dei più deboli.
Ovviamente, sarebbe assurdo non offrire a chi è più dotato tutte le risorse per la crescita cui ha diritto, risorse utili in vista del servizio che il “meritevole” dovrebbe “consapevolmente e, soprattutto, onestamente” saper rendere alla comunità.

antonio conese, 28 settembre 2020

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2 risposte a La Festa di San Michele, ed altri ricordi

  1. Celestina Martinelli ha detto:

    Un toccante spaccato di vita familiare, condensato nello splendido rapporto genitore-figlio, che ci fa riflettere sull’importanza e sul valore dell’esempio. Una testimonianza di vita che ci commuove, Complimenti all’Autore! C. Martinelli

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